Semi-nomade per vocazione e acrobata per spirito, Ozma attraversa i linguaggi con curiosità e leggerezza, trasformando il gesto del tagliare, incollare e ricomporre in un atto poetico.
Nei suoi collage, frammenti di passato si uniscono in nuove visioni, in bilico tra memoria e immaginazione, concretezza e sogno.
Cosa rappresenta l’arte per te?
L’arte è la forma più intima che conosco per fare esperienza della dimensione divina e magica delle cose.
È un esercizio di creazione e di percezione, un continuo inter-agire con il mondo e con noi stessi.
Un processo alchemico quotidiano, catartico e salvifico, necessario per attraversare le stonature e le brutture della realtà.
Un luogo sacro in cui l’anima può rifugiarsi, tirare un sospiro di sollievo e ritrovare ispirazione.
O, come disse il da poco scomparso Stefano Benni— l’arte è questo: scappare dalla normalità che ti vuole mangiare.
Come e quando ti sei avvicinata all’arte?
Non c’è stato un vero e proprio inizio. In un certo senso, l’arte è sempre stata presente nella mia vita, a tratti più evidente, a tratti nascosta.
Nata linguista in una famiglia di lettori appassionati, ho ereditato un amore profondo per la parola scritta e, senza accorgermene, sono diventata una collezionista seriale di carta.
Quando questa ha iniziato a traboccare da scaffali e cassetti, mi sono trovata davanti a una scelta inevitabile: disfarmene o trasformarla.
Quel giorno ho (ri)scoperto la gioia di colla e forbici, attività che amavo già da bambina. Da allora, non mi sono più fermata.
Qual è la tua maggiore fonte di ispirazione?
L’essere umano, i suoi abissi, le sue vette: un mosaico di amore, storie, carne e stelle. Le sue incredibili avventure, nonostante la barbarie dimostrata nei secoli, restano ciò che più mi affascina, intriga e sconvolge.
Sicuramente il viaggio: la scoperta di nuovi mondi, la ricerca incessante di un altrove sconosciuto. Soprattutto, però, il viaggio come transito — puro movimento — quel tempo sospeso e indefinito tra un momento e l’altro, in cui il passaggio di stato apre lo spazio alle intuizioni più profonde.
Last but definitely not least, le parole. Essendo una traduttrice semi-nomade, scrivo e assemblo collage ogni volta che posso: tradurre mi aiuta a riscoprire la qualità simbolica di oggetti e concetti; il collage, invece, mi permette di tradurre sentimenti, idee e percezioni, dando loro nuove forme e architetture.
I riferimenti artistici e culturali che ti hanno maggiormente influenzato nel corso del tempo?
Sono tantissimi — troppi, forse — e se provassi a farne una lista, rischierei di non finire più, ossessionandomi nel tentativo di non dimenticare nessuno.
Così, preferisco riassumere il tutto con quella che considero la mia personalissima trinità di David: Bowie, Byrne e Lynch.
Ognuno di loro racchiude un cosmo di riferimenti, visioni, eroi e sogni che mi hanno spinto a esplorare epoche, paesi e dimensioni fuori dall’ordinario.
Per sempre grata.
Quali emozioni speri di suscitare negli osservatori delle tue opere?
Curiosità. Voglia di guardare le cose da un altro punto di vista. Desiderio di andare oltre.
Di attraversare lo specchio con Alice ed esperire, in prima persona, il proprio Paese delle Meraviglie: un luogo dove tutto è sottosopra, è nonsense — e forse, proprio per questo, ha molto più senso del mondo reale.
Peregrinazioni intellettuali a parte, più di ogni altra cosa, mi piacerebbe strappare un sorriso che è lo scambio più autentico e spontaneo tra esseri umani.
C’è un messaggio particolare che cerchi di comunicare attraverso le tue opere?
Rispondo con un collage storico-letterario, prendendo in prestito una frase del principe Miškin di Dostoevskij, e le parole — ancor più radicali e concrete — di Peppino Impastato.
La bellezza salverà il mondo.
Se si insegnasse la bellezza alla gente, la si fornirebbe di un’arma contro la rassegnazione, la paura, l’omertà.
All’esistenza di orrendi palazzi sorti all’improvviso, con tutto il loro squallore da operazioni speculative, ci si abitua con sorprendente facilità: si mettono le tendine alle finestre, le piante sul davanzale, e presto ci si dimentica di com’erano quei luoghi prima.
Ogni cosa, per il solo fatto che è così, finisce per sembrare come se dovesse essere così da sempre e per sempre.
È per questo che bisognerebbe educare alla bellezza: perché in uomini e donne non si insinui l’abitudine, né la rassegnazione — ma rimangano sempre vivi la curiosità e lo stupore.
What else?
Qual è il ruolo dell’imperfezione nella tua arte?
Centrale.
Credo sia proprio una delle ragioni per cui amo il collage — e lo sento così perfetto come forma di espressione: è sempre in potenziale trasformazione.
La perfezione, per me, è un concetto statico, un po’ limitante.
L’imperfezione, invece, è movimento, ritmo, vita.
Un constante work in progress.
È la possibilità stessa dell’arte.
