Teo Iaia nasce a Brindisi nel 1972, dove vive e lavora. Inizia la sua carriera come pubblicista per testate giornalistiche locali, per poi dedicarsi alla narrativa.
Negli anni si appassiona a grafica, web e fotografia, diventando un punto di riferimento nella scena fotografica locale. Dal 2014 ricopre ruoli direttivi nell’Associazione Fotografica InPhoto di Brindisi, dove tiene corsi e workshop, e ha poi assunto la carica di Presidente e Direttore Artistico ad interim.
Ha pubblicato il libro fotografico e partecipato a mostre collettive nazionali e internazionali, moderando incontri con grandi autori. Il suo lavoro esplora la memoria e la narrazione visiva, combinando tecnica e passione per raccontare storie che parlano direttamente all’osservatore.
Arteaporté ha avuto il piacere di intervistare l’artista per approfondire il suo percorso e la sua visione dell’arte.
Cosa rappresenta l’arte per te?
L’arte è il mio modo di ascoltare il mondo. È una forma di silenzio attivo, uno spazio in cui l’immagine diventa linguaggio e memoria. Attraverso la fotografia cerco di restituire ciò che non si può dire, ciò che resta tra le parole. L’arte per me è la riproduzione concreta di quello che una persona ha dentro.
Come e quando ti sei avvicinato all’arte?
Mi sono avvicinato all’arte attraverso la scrittura. Prima di fotografare, ho sentito la necessità di raccontare. Poi, lentamente, le parole si sono trasformate in immagini: la fotografia è diventata una forma più istintiva e visiva di narrazione. La Polaroid, con la sua materia viva e imprevedibile, mi ha dato la possibilità di unire entrambe le dimensioni.
Qual è la tua maggiore fonte di ispirazione?
Mi ispira tutto ciò che contiene un’assenza: una stanza vuota, una pagina bianca, una figura umana che si sottrae. Mi interessa il confine tra ciò che è visibile e ciò che resta fuori campo, il momento in cui l’immagine smette di essere rappresentazione e diventa presenza.
I riferimenti artistici e culturali che ti hanno maggiormente influenzato nel corso del tempo?
Mi hanno influenzato tanto la fotografia istantanea di Maurizio Galimberti, quella creativa e polimaterica di Alan Marcheselli ma più in origine quella di Robert Frank per la forza comunicativa delle stesse immagini se pur in bianco e nero. L’approccio concettuale di Francesca Woodman, la poesia visiva di Duane Michals. Ma anche la letteratura da Italo Calvino a Carlos Ruiz Zafon ha avuto un ruolo fondamentale nel mio modo di costruire l’immagine.
Quali emozioni speri di suscitare negli osservatori delle tue opere?
C’è un messaggio particolare che cerchi di comunicare attraverso le tue opere?
Più che un messaggio, cerco un dialogo. Le mie opere nascono dal bisogno di attraversare la soglia tra visibile e invisibile, tra il corpo e la parola. Ogni immagine è un tentativo di ascolto, una domanda aperta, mai una risposta. La possibilità di dire io ho questo sto attraversando questo e voglio dire questo. Puoi ascoltarmi? In un mondo che corre veloce, io voglio fermare il tempo, il mio tempo, quello che vorrei per me da me stesso e da chi amo.
Qual è il ruolo dell’imperfezione nella tua arte?
L’imperfezione è tutto. È la prova che qualcosa è accaduto davvero. Amo la fotografia istantanea perché non si può controllare: ogni errore, ogni macchia, ogni variazione diventa parte del linguaggio. L’imperfezione rende l’immagine viva, unica e irripetibile, come un frammento di tempo che non tornerà. Noi siamo imperfetti e la nostra imperfezione che costruisce la società.

